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Una riflessione sul corso di lettura del Talmud

di: Donatella Fischer

Questo breve articolo vuole offrire una riflessione sul corso dedicato alla lettura e al commento di brani talmudici condotto da Rav Levi, direttore e fondatore della scuola Shemah. Seguo già da quattro anni queste lezioni che ci hanno fatto avvicinare a tre trattati: Berakhòt, Rosh haShanà e Meghillà[1]. Sono stati anni di esplorazione, spesso difficile, e di grande arricchimento. Credo che soprattutto per chi, come me, non si era mai immerso nelle letture talmudiche in modo sistematico tramite una guida esperta, l’avvicinamento al testo che è asse portante della cultura ebraica, accanto naturalmente alla Torah, possa rappresentare una svolta intellettuale ed una crescita personale sostanziali.

Provengo da un background letterario e quindi sono già preparata nel campo della critica e della teoria. Tuttavia l’approccio alla struttura del Talmud e alla sua comprensione richiede qualcosa di diverso, uno sforzo mentale e direi logico spesso inaspettato. Le preparazioni teoriche, anzi, non sono lo strumento più adatto alla comprensione del Talmud. I trattati sono testi estremamente pratici, analizzano e discutono argomenti concreti che possono essere legislativi, agricoli, propriamente religiosi, architettonici, filosofici, per citarne solo alcuni. Tutto il sapere, anche nei suoi aspetti più quotidiani, è compreso in questo immensa raccolta delle opinioni e discussioni dei grandi maestri del Talmud.

Quest’ultimo aspetto è il primo incontro che travolge. Le voci dei tannaìm (letteralmente ‘ripetitori’) dell’epoca mishnaica, degli zugot, vale a dire delle coppie fra cui i più celebri furono Hillel e Shammai, e degli amoraim (gli ‘interpretatori’) emergono dalla pagina scritta immergendo il lettore nella vastissima ed antica sapienza ebraica, una sapienza millenaria poi raccolta nel Talmud a partire dal III secolo e.v. Dalle voci degli antichi maestri emerge sempre, più o meno in filigrana, l’avvenimento catastrofico che ha portato alla registrazione, si potrebbe dire verbalizzazione, della Torah orale: la distruzione del II Tempio nel 70 e.v. da parte degli eserciti di Tito. Con questo fatto che rappresenta uno spartiacque storico, culturale, sociale, geografico, e con le sue enormi conseguenze, dobbiamo sempre riconfrontarci. Si trattò di un cambiamento epocale che ebbe un impatto indelebile su tutti gli aspetti della vita ebraica. La distruzione del Tempio, come ben risaputo, causò vasti movimenti diasporici che mettevano inevitabilmente a rischio la sopravvivenza del patrimonio culturale di questo popolo. A maggior ragione si delineò la necessità di raccogliere lo sconfinato patrimonio di discussioni rabbiniche e di norme halakiche in quello che dal III al VI secolo e.v. divenne il Talmud, nella Mishnà, redatta da Yehudah haNasi nel II secolo e.v., e in una miriade di altri testi che raccolsero la Torah orale come la Toseftà (‘aggiunta’) e la baraità o ‘testi esterni’. Questi riferimenti supplementari vengono usati nei dibattiti della ghemarà (parola aramaica il cui significato è Talmud)  per allargare la discussione presentando ulteriori punti di vista. Tali dibattiti sono puntigliosi e utilizzano una forma retorica che si snoda attraverso asserzioni, quesiti, associazioni, allusioni, obiezioni e talvolta armonizzazioni. Un esempio dal trattato Berakhòt circa l’orario iniziale per lo Shemà della sera:

2. (citazione dalla mishnà): Ha detto il Maestro nella mishnà: Da quando si legge lo Shemà della sera? Dall’ora in cui i Kohanim enrano a mangiare la loro terumà. (Contraddizione con una baraità). Si evidenzia una contraddizione tra la mishnà e la seguene baraità: Da quando si recita lo Shemà della sera? Dall’ora in cui il povero entra a mangiare il pane con il sale fino all’ora in cui si alza per lasciare il suo pasto. La fine della baraità certamente differisce dall’insegnamento della nostra mishnà, ma l’inizio della baraità, diremmo forse che differisce dall’insegnamento della mishnà? (Risposta) No! L’ora relativa al povero e quella relativa al kohen sono identiche.[2]

Il passo ben rappresenta la struttura della discussione rabbinica: asserzione, quesito, risposta ed esempio, contraddizione e baraità, quesito, risposta e chiarimento, quesito, armonizzazione. Da questa apparente semplicità linguistica, emerge inoltre la questione complessa della modalità della preghiera e del momento in cui deve iniziare. Non è cosa da poco: in un mondo che si era allargato a raggiera con le diaspore, la codificazione del rituale religioso significava garantire una coerenza identitaria, religiosa e culturale.

Da un altro punto di vista leggere questi dibattiti è, a mio avviso, una scuola di vita. Il Talmud ci sollecita ad uscire da noi stessi; ci insegna ad ascoltare senza giudicare, ad inquisire, a considerare il maggior numero di punti di vista come tutti ugualmente importanti, ad analizzare le parole in profondità in qualsiasi contesto con disamine quasi chirurgiche. Proprio le regole per lo Shemà e di come, quando e in che modo esso debba essere recitato mettono in luce quanto per l’ebraismo siano imperative la completa dedizione e la kavanah  (intenzionalità) nel compiere un precetto. Nulla può essere lasciato al caso e questo può essere ampliato a tutti i livelli. La parola deve essere pronunciata con cognizione di causa, ragionata, sentita, porta nel modo e nel tempo giusto. Come ho detto, il Talmud è una scuola di vita. Harry Freedman evidenzia a questo proposito:

It’s not a easy book. It is an exquisitely complex, highly logical and frequently impenetrable work. For most of its history studying the Talmud had been regarded by the Jews as an intellectual exercise in its own right. An exercise which, since it leads the student to the essence of human knowledge and experience, confers profound spiritual benefit.[3]

E ancora, a testimonianza della complessità e della struttura dei dibattiti rabbinici:

 Its logic is dense yet immaculate, it is more interested in the analysis of a problem than the outcome, it frequently refrains from reaching a conclusion, and even when it does convey a decisioni it can be hard to understand.[4]

Senza dubbio il Talmud rappresenta una sfida intellettuale per chiunque. La sequenza del dibattito spesso utilizza associazioni e digressioni che possono sembrare arcane o non immediatamente logiche eppure, proprio come osserva Freedman, la logica c’è e sta a noi scoprirla. Sta a noi comprendere gli orizzonti infinitamente ampi del Talmud e su tale aspetto il grandissimo commentatore talmudico Adin Steinsaltz si esprime così:

Qualsiasi argomento pertinente la Torà, o uno degli aspetti della vita legati ad essa, merita che ce se ne occupi, vale la pena di essere affrontato e analizzato, per tentare di capirne il significato. Via via che lo studio procede, non si solleva neppure la questione dell’utilità di quella domanda specifica, o di quale ne sia lo scopo […] [5]

Indipendentemente da quanto lontana nel passato sia la questione che viene dibattuta, Steinsaltz spiega che l’atteggiamento dello studioso non muta e che il suo ‘obiettivo esclusivo è quello di risolvere le questioni teoriche e di ricercare la verità’.[6]
Ecco che si torna alla necessità di superare gli scogli teorici a favore della pragmaticità per poter arrivare a comprendere la realtà in tutti i suoi aspetti.

La complessa maglia dialogica del Talmud non è tuttavia un esercizio linguistico fine a se stesso. Al contrario. Attraverso quest’ossatura dialettica emerge l’altro aspetto fondamentale dell’opera: la sua valenza antropologica. Il Talmud ci insegna che l’ebraismo non è solo di natura religiosa ma è un modo di vivere e di rapportarsi agli altri, alla natura, al tempo, al ricordo e alla memoria (zakhor, ‘ricorda’, è un precetto). Tramite le disquisizioni dei maestri  il Talmud si addentra in tutti gli ambiti della vita ebraica: le festività e la loro ritualità, la preghiera, il matrimonio, i rapporti sociali e interpersonali. Nulla sfugge al Talmud. Ne emerge una vera e propria enciclopedia della cultura ebraica, e per questo ho parlato del valore antropologico di quest’opera che è unica proprio per la vastità dei suoi contenuti. Nella frammentarietà delle diaspore la redazione del Talmud ha fornito il collante morale, spirituale e legislativo che ha permesso di superare il senso di dispersione e di perdita d’identità. È il libro dell’essere ebreo e a chi ci si avvicina offre un viaggio in un mondo di sapienza sconfinata. All’interno di questa sapienza ho trovato il concetto di kavanah, quindi di partecipazione ma anche di condivisione totale, di intenzione e di immedesimazione nel mettere in atto i precetti, una delle grandi lezioni talmudiche.  Se comprendiamo il messaggio del Talmud non possiamo che essere persone migliori.

Concludo questa riflessione sul grande apporto spirituale e intellettuale che il Talmud permette di intraprendere, e che con il corso di Shemah ho intrapreso, riproponendo le parole di Elie Wiesel :

Ogni passaggio del Talmud ci fa scoprire un nuovo mistero, un nuovo enigma; contrariamente agli altri grandi testi religiosi, incoraggia il lettore a spingersi sempre più in là nelle domande e nelle ricerche, Così ci sforziamo di comprendere quei saggi, sulla scorta di alcuni episodi della loro vita che a prima vista sembrerebbero inspiegabili […] [7]

Facendo eco alle parole di Wiesel, senz’altro con la lettura del Talmud si intraprende un viaggio personale, intellettuale e spirituale. Il corso iniziato quattro anni fa con Shemah mi ha offerto la possibilità di ascoltare il rigore dialettico dei maestri e di comprendere l’ebraismo in quanto modo di vivere e di rapportarsi agli altri e alla realtà.[8]

Sono convinta che questa  grande enciclopedia della vita ebraica si appelli a tutti e possa trasformare nel profondo il lettore che voglia accoglierne l’insegnamento.

Donatella Fischer


[1] Tutti questi trattati sono stati tradotti in italiano da Giuntina

[2] TB, Trattato Berakhòt, Capitolo 1. Meematài, 2b/1. Ho indicato in neretto le parole e frasi che fanno effettivamente parte del testo originale. Quanto appare con scrittura standard rappresenta aggiunte esplicative introdotte per rendere il testo più accessibile in traduzione.

[3] Harry Freedman, The Talmud. A Biography. Banned, Censored and Burned. The Book They Couldn’t Suppress. First published in Great Britain by Bloomsbury Publishing, 2014. Accesso alla versione digitale su Kindle, Keren Publications 2014. P.2.

[4] Ibid., p, 2.

[5] Adin Steinsaltz, Che cos’è il Talmud, (Giuntina: Firenze, 20024), p. 18.

[6] Ibid. p. 18.

[7] Elie Wiesel, Maestri e leggende del Talmud, (Giuntina: Firenze, 2020), pp.12-13. Quanto il metodo talmudico di analisi e ricerca sia parte di una forma mentis fondamentale per addentrarsi nella complessità dell’esistenza e degli avvenimenti mi è apparso in modo molto chiaro dalla lettura di un testo autobiografico che mi ha ulteriormente incoraggiata ad inoltrarmi in questo studio. Si tratta del libro Kaddish di Leon Wieseltier, (Random House: New York: 1998). Nel periodo del lutto che segue la morte del padre Wieseltier si interroga e dibatte il versetto ‘Magnify and sanctify’ del kaddish per i defunti. Il fine ultimo è di comprenderne la ragione e il significato. La ricerca è di grande portata storica e filologica e spesso si scontra con il dibatttio e le obiezioni o i dubbi dell’autore. Ma tutti i quesiti, i dubbi, le incertezze e le obiezioni incontrati durante tale ricerca, portano ad un’armonizzazione finale proprio come accade spesso nel Talmud.

[8] Martin Buber ha analizzato il significato del rapporto io-tu e del rapportarsi agli altri e al mondo nel saggio Il principio dialogico e altri saggi (Milano: Edizioni San Paolo, 1993). C’è una vasta letteratura sull’argomento e Buber è una delle voci maggiori .

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