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Anselm Kiefer. Angeli caduti (Firenze, 30 giugno 2024)

di: Fabrizio Lelli

Tra le attività proposte per la giornata conclusiva dei corsi annuali della Scuola di cultura e studi ebraici “Shemah”, è stata organizzata una visita alla mostra Anselm Kiefer. Angeli caduti (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 marzo – 21 luglio 2024).

La decisione è scaturita dal desiderio di guidare gli allievi all’incontro fisico (e non solo virtuale, come nella maggior parte dei corsi) con le opere di uno dei più noti artisti del mondo contemporaneo, Anselm Kiefer, profondamente influenzato dalla letteratura ebraica e convinto sostenitore della memoria d’Israele.

Il percorso stesso della mostra, curato da Kiefer, è finalizzato a sottolineare il legame profondo dell’artista con il Rinascimento italiano – periodo di fervidi contatti speculativi tra intellettuali ebrei e cristiani – e può essere concepito come vero e proprio viatico alla scoperta del ruolo del pensiero ebraico nella cultura dell’Occidente moderno. In quest’ottica, l’esposizione è divenuta un utile strumento di valutazione della correttezza metodologica dei corsi di Shemah, all’interno dei quali i vari aspetti della cultura ebraica sono presentati in modo da esplorarne la ricchezza anche ai fini di una migliore comprensione della società contemporanea. Mi fa piacere rilevare che il compito non facile di guidare gli allievi alla scoperta della complessa e articolata sovrapposizione di motivi simbolici attinti nell’arte di Kiefer dalle più varie letterature e sistemi religiosi si è rivelato quanto mai affascinante, grazie al costante scambio di opinioni con i partecipanti, che hanno dimostrato, oltre al profondo interesse per le opere esposte, la loro competenza sui temi affrontati nel corso della visita. In altri termini, mi pare che l’aspetto esperienziale dell’iniziativa sia stato vantaggioso anche per accertare il pieno conseguimento delle finalità del nostro corso di studi.

L’opera artistica di Kiefer si offre a letture assai diverse che consentono di ripercorrere non solo l’evoluzione intellettuale dell’autore, ma anche la complessità del suo percorso estetico. Kiefer è nato nella Germania meridionale nel 1945, pochi mesi prima della capitolazione del Paese che segnò la fine della seconda Guerra Mondiale e l’inizio di un lento processo di recupero di quella dignità nazionale che era stata fortemente compromessa dalla tragedia nazista. Analogamente a molti suoi coetanei tedeschi, l’artista si interroga sul senso della storia patria: come è possibile che un popolo colto, dall’etica collaudata, sostenuta sulla straordinaria mole speculativa del pensiero tedesco otto e novecentesco, si sia lasciato trasportare in un breve arco temporale nel baratro dell’amoralità nazista, travolgere dalla catastrofe annunciata della follia lucida e distruttrice di Hitler? Per fornire una risposta a quest’assillo critico, che ha condotto un’intera generazione a sopportare il peso del senso di colpa collettivo per i crimini perpetrati contro l’umanità, Kiefer elabora l’idea della caduta necessaria, della rovina determinata, provocata dal delirio di onnipotenza dell’uomo.

Fin dall’inizio del percorso espositivo di palazzo Strozzi, nel grande cortile d’impianto umanistico, si comprende il rilievo attribuito dall’artista al testo biblico e alla sua interpretazione. Se certamente il punto di partenza della speculazione di Kiefer sul male è l’Apocalisse neo-testamentaria, l’idea di caduta rovinosa del divino nella materialità, ispirata anche dalla tradizione filosofica greca e in particolare dal pensiero platonico, è certamente debitrice anche alle correnti del giudaismo “di mezzo”, cioè successivo all’esilio babilonese, che si posero interrogativi complessi sul significato della presenza del male nel mondo in rapporto alla creazione divina.

Il problema delle origini del male è fondamentale all’interno di tutti i sistemi di pensiero: tuttavia, mentre per il cristianesimo l’idea di Dio è assolutamente scevra dalla contaminazione di ogni elemento negativo, nell’ebraismo, e in particolare in alcune correnti antiche che avrebbero prodotto successivamente la riflessione cabbalistica medievale e moderna, anche l’imperfezione può in ultimo essere ricondotta all’Assoluto, poiché tutto ciò che esiste deriva da Dio. Fondandosi dunque sul testo dell’Apocalisse, gli angeli caduti che danno titolo alla mostra sono le schiere che hanno deciso di opporsi alla volontà suprema di Dio e per questo sono state atterrate dall’intervento di Mikha’èl, che ad ali spiegate trionfa al centro dell’opera monumentale, concepita per dialogare con i ritmi rinascimentali di palazzo Strozzi. Il nome ebraico dell’angelo viene esplicitato accanto alla sua figura imponente, ispirata alla maniera di Luca Giordano. Ma il cielo dorato su cui si staglia Michele richiama i fondi dei “primitivi” e allude alla luminosità incorruttibile dell’empireo. La scelta di non tradire il proprio Signore è allusa dal dito puntato dall’angelo verso il proprio nome, che significa “Chi è come Dio?”, evidente riconoscimento dell’unicità del dominio dell’Assoluto, in contrasto con le scelte alternative delle schiere cadute rovinosamente nella materia. Come nei dipinti rinascimentali, i ribelli acquisiscono tridimensionalità e i loro corpi contorti e aggrovigliati, sullo sfondo tetro che contrasta con la luce celeste, sono segnati dalla multidimensionalità del mondo corruttibile, suggerita dall’uso della tecnica mista. Diversamente dall’angelo superno, diafano e dai tratti individuali impercettibili, le creature precipitate hanno volti ben leggibili, ispirati alla tradizione iconografica tardo-antica orientale, simili a quelli dei filosofi antichi che fanno mostra di sé in altre opere dell’artista, esposte nelle sale del palazzo.

Già dunque dal primo impatto visivo, di abbagliante intensità, luce e tenebre, bene e male, assenza di spazialità e volumetria sono le polarità contrapposte che segnano la distanza tra la perfezione celeste e l’imperfezione terrena; la scelta di distruggere e di distruggersi viene ricondotta al libero arbitrio della creazione concesso da Dio, il dono offerto all’Adamo originale di autodeterminarsi, molto spesso fondamento di conflitti rovinosi. Il concetto di distruzione piovuta dall’alto (allusione ai bombardamenti bellici) permea tutto il percorso espositivo. L’uomo, erede della spiritualità divina, sprofonda nel male da quando gli angeli caduti si legano alla materialità terrena, come si legge nella Genesi; fondandosi su modelli razionali di spiritualità, la creatura divina si illude di tendere al bene, quando invece volge la propria esistenza solo alla negazione dell’essere e alla propria distruzione. Mi pare che il pensiero alla base dell’arte di Kiefer, certamente alimentato dalla riflessione sulla Scrittura ebraica e cristiana, tragga particolare fondamento dall’interpretazione biblica luterana, che sottolinea il tema del peccato insito nella natura stessa dell’uomo, ma tiene comunque presenti i contributi più significativi della speculazione greca classica. La ricerca di Kiefer si avvale anche di elementi della tradizione norrena fusi con mitologemi derivati dalla tradizione greco-latina e interpretazioni della mutevolezza e transitorietà del reale originate dalla lezione indo-persiana. Costante è il recupero del repertorio delle Metamorfosi ovidiane, già utilizzate in età medievale e nel Rinascimento per alludere all’ibridazione tra livelli ontologici diversi e lette, in chiave ebraica, come prova della diffusa credenza di origine orientale del gilgùl ha-neshamòt, la metempsicosi. La riflessione cabbalistica, a detta dello stesso artista, ha un ruolo privilegiato nel suo pensiero, soprattutto a seguito di un soggiorno in Israele. Alla mistica ebraica, nella sua interpretazione rinascimentale e moderna, si riferisce esplicitamente l’installazione (1980) intitolata En sof, l’espressione ebraica che, soprattutto nella letteratura esoterica, indica l’Infinito, cioè il Dio trascendente, ineffabile e irraggiungibile. Racchiusa in una vetrina si erge una scala a pioli, realizzata in una lega metallica che ha il piombo tra i suoi componenti. Il metallo, che la tradizione mistico-alchemica associa alla pesantezza della materia, è riferito a Saturno, il pianeta tutelare del popolo d’Israele secondo l’astrologia medievale (il nome ebraico, Shabbetày, rimanda a Shabbàt, il giorno sacro d’Israele). Saturno è il pianeta della malinconia e nell’opera di Kiefer si coglie l’esplicito richiamo alla celebre incisione Melancholia I di Albrecht Dürer, l’artista tedesco forse più noto del Rinascimento, profondamente influenzato dalla pittura italiana e conoscitore della simbologia magico-alchemica (e anche cabbalistica) della sua epoca. Sui gradini della scala sono iscritti i nomi ebraici (qui in alfabeto latino) dei quattro mondi al centro della speculazione cabbalistica luriana: Atzilùt (emanazione), Beri’à (creazione), Yetzirà (formazione) e ‘Asiyà (fabbricazione). Un serpente si attorciglia ai primi livelli dell’ascesa, simbolo dell’impossibilità per l’impuro di adire ai gradi superiori dell’essere. A terra si osservano frammenti di materia: è possibile risalire la scala per ritrovare la primigenia statura dell’uomo primordiale o siamo costretti a restare intrappolati al livello delle scorie derivanti dalla rottura dei vasi (la sheviràt ha-kelìm al centro del sistema luriano)? Come nell’opera collocata all’inizio del percorso, il processo di distruzione ha inizio dalla disgregazione dell’ordine divino originale: l’eccesso di luce emanata da Dio all’atto della creazione provoca una rottura del sistema che potrà essere ricomposta solo grazie alla volontà dell’uomo. La concezione della ciclicità di creazione e distruzione, già presente nella letteratura rabbinica e al centro del complesso sistema cabbalistico, compare in numerose altre opere di Kiefer. Grande successo ha avuto, nello spazio espositivo Pirelli HangarBicocca di Milano (2004-2015), l’installazione intitolata I sette palazzi celesti, esplicitamente fondata sui palazzi-stanze dell’antica letteratura ebraica degli Hekhalòt. Come nel “mito” della scala di Giacobbe, il cosmo di mezzo, tra cielo e terra, è popolato di angeli, che salgono e scendono, invitando la creatura terrena a compiere incursioni nel mondo celeste. Il modello estatico antico può essere seguito ancor oggi. Del resto il cabbalista veneziano cinquecentesco Eliyyà Menahèm Halfàn scriveva, con intenti dichiaratamente messianici, di voler realizzare nel suo manufatto cabbalistico – un’enorme pergamena istoriata oggi conservata a Firenze – la riproduzione di un albero sefirotico, a immagine della scala di Giacobbe. Scriveva in ebraico: “Facciamo un albero che sia radicato in terra e la cui cima giunga fino al cielo… colle sue minuzie e i suoi commenti, in modo da svelare un palmo e coprirne due, cosicché rimanga riservato per gli spiriti elevati…” Nel disegnare la sua scala iniziatica in forma d’albero, Halfàn si servì dell’immaginario simbolico cabbalistico, unito ad elementi iconici tratti dall’atmosfera di elevata creatività del Rinascimento italiano. E per Kiefer, alle prese con l’aniconismo dell’arte contemporanea, qual è il senso dell’arte? È solo una disciplina ancillare, di scarso rilievo a fini conoscitivi, come sosteneva Platone, oppure è un valido strumento per permettere all’osservatore di chiarire il proprio ruolo nella storia? Anche in questa prospettiva l’artista tedesco può dirsi riprendere l’intera estensione temporale dell’estetica occidentale, che in forme diverse ha tentato di suggerire il ruolo imprescindibile dell’arte nella formazione etica dell’individuo. In particolare il Rinascimento, ma anche l’arte moderna, è alla base dell’ispirazione di Kiefer, che trae spunti dal passato, come si osserva dall’elemento ricorrente dei girasoli, derivati da Van Gogh, o dall’uso di tecniche prospettive ispirate all’illusionismo barocco, a loro volta fondate sulle speculazioni scientifiche che i pensatori cristiani del XVII secolo associavano anche alla Cabbalà ebraica.

Le stratificazioni intellettuali nell’opera di Kiefer sono molto più complesse (ricordo, ad esempio, il ruolo primario della letteratura contemporanea e in particolare il rapporto tra produzione scritta e matematica) e solo l’esame attento delle singole opere permette di comprendere, almeno in parte, i principali significati occultati dall’artista nella sua produzione. Kiefer è dunque uno yotzèr, un creatore, come sosteneva Leone Ebreo a proposito degli artisti del suo tempo nel suo capolavoro rinascimentale, i Dialoghi d’amore? È un operatore di prodigi in grado di risanare le lacerazioni del mondo e di compiere un tiqqùn redentivo? È, come i protagonisti della mostra, un angelo-messaggero, in grado di annunciare la verità divina che l’uomo, angelo caduto, non riesce più a comprendere? L’arte di Kiefer tenta di offrire risposte ai grandi interrogativi da sempre al centro della ricerca intellettuale dell’umanità, ma le soluzioni presentate non sono mai univoche, come nella grande e variegata letteratura cabbalistica ebraica.

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